Il contratto bancario

L'avv. Piccione Giuseppe del Foro di Taranto, pubblica un suo lavoro su forma e sostanza del contratto in materia bancaria.

Il contratto in materia bancaria tra forma e sostanza

Nella notte dei tempi l'uscita dalla società fondata sulla struttura patriarcale segna l'inizio di una nuova civiltà, che, attraverso complessi processi storici, giunge fino ai nostri giorni. A caratterizzare questa cesura epocale è lo "scambio": gli individui, resi progressivamente liberi dai vincoli di sangue, si aprono all'esterno e scambiano le merci, necessarie per vivere ma anche per sviluppare le proprie potenzialità e per migliorare la propria condizione economica. Una di queste merci diviene la moneta, bene che finisce per costituire unità di misura del valore dei beni e degli scambi.

Strumento fondamentale di questa nostra civiltà è il "contratto", ossia un particolare negozio giuridico, bilaterale o plurilaterale, con il quale i soggetti manifestano, attraverso un "accordo", la propria volontà di costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale (art.1321 c.c.). Il percorso di formazione del contratto può essere più o meno breve o lungo, semplice o complesso, e può anche dipanarsi attraverso fattispecie a formazione progressiva, ma ciò che conta è che esso, se non fallisce, giunge infine al suo "momento magico", ossia al perfezionamento della comune volontà, di quello che i romanisti definivano idem velle, volere la stessa cosa. Questo percorso negoziale, naturalmente, per essere realmente tale, ha le sue esigenze: deve svolgersi in modo libero, leale, veritiero, correttamente informato e preciso nel suo contenuto finale così che il suo oggetto sia determinato o, quanto meno, determinabile (art.1346 c.c.).

Il contratto è, quindi, lo schema giuridico attraverso il quale si sviluppa un po' tutta la vita economica e sociale: stipuliamo un contratto quando acquistiamo o vendiamo un appartamento anziché un'automobile, quando costituiamo una società, ma anche quando compriamo un bene. Il principio irrinunciabile in materia contrattuale è quello “consensualistico”: un contratto sorge quando c'è il consenso di tutte le parti su un determinato negozio, che può essere tipico (es., compravendita, locazione etc.) o atipico (art.1322 c.c.). Per stipulare un contratto in alcuni casi è sufficiente il consenso, esprimibile anche verbalmente o in via di fatto; altre volte si richiede una forma particolare a pena di nullità: se voglio acquistare un immobile, per esempio, sarà necessaria la forma scritta (art.1350 c.c.) mentre in caso di donazione la stipula richiederà l'atto pubblico. Il consenso, in ogni caso, non potrà mai mancare.

- Questo discorso perde la sua linearità e diventa alquanto contorto quando ci occupiamo del contratto in materia bancaria, ove storicamente si sconta un certo deficit di negozialità. Si tratta di una materia ove abbondavano le prassi, i regolamentari predisposti dalle associazioni interbancarie (per lo più stilati su documenti fittissimi di norme scritte in caratteri microscopici), le modulistiche di approntamento unilaterale. In tale contesto la "comune volontà" si risolveva in una sorta di astrazione, poco comprensibile e dotata di scarsa effettività. Senza approfondire qui il tema dell'anatocismo, le cui clausole racchiuse nelle suddette "norme bancarie uniformi" venivano considerate "usi normativi" anziché, come nella realtà, "usi negoziali", va ricordato l'ampio uso per troppo tempo consentito (prima che fosse sanzionato di nullità) delle clausole sugli interessi convenzionali mediante rinvio agli incomprensibili "usi su piazza" oppure l'addebito delle cc.dd. "commissioni di massimo scoperto", che, nonostante la loro (quanto meno) atipicità, non venivano "formulate" nel loro significato causale (la "causa" è altro requisito indefettibile del contratto) né venivano disciplinate nel loro sistema di calcolo.

Per ovviare a queste criticità sono intervenute nel tempo varie leggi, fra le quali quella "sulla trasparenza bancaria" e il successivo Testo Unico Bancario. Tali leggi hanno cercato di conferire "trasparenza" alla contrattualistica bancaria individuando, in particolare", nella "forma" uno strumento a tutela del cliente che voglia accedere al credito. Si è stabilita quindi, l'obbligatorietà della forma scritta dei contratti bancari, in difetto della quale scatta la sanzione della nullità e la conseguente applicazione dei tassi di legge.

Nonostante questi opportuni interventi normativi, va detto che le prassi non sono state del tutto debellate e si continua ad assistere a processi di formazione dei contratti (specialmente in quelli di apertura di conto corrente) incongrui rispetto ad effettivi percorsi negoziali fra le parti. Si leggono, per esempio, modulistiche predisposte da banche che vengono firmate dai clienti e da questi inviati per posta raccomandata all'istituto di credito, così integrando la data certa. I regolamentari di unilaterale predisposizione continuano a sussistere e, con essi, documenti predefiniti, anche nel contenuto economico, che il cliente firma in serie senza esserne mai soggetto co-redigente, come il requisito della forma, correttamente inteso, doveva implicare.

Altra "stranezza" dei contratti bancari redatti per iscritto all'indomani della stagione della "trasparenza bancaria" è che molto spesso essi sono firmati dal solo cliente ma non anche dall'istituto di credito e da un suo rappresentante esattamente individuato. Ciò ha dato luogo a numerosi contenziosi, dubitandosi della validità di tali contratti. Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, con la sentenza n.898/2018, hanno enucleato dalla legge la distinzione fra "nullità strutturale" e "nullità funzionale". Quest'ultima ha una portata diversa dalla prima, più circoscritta, relativa alla "funzione" informativa del cliente e posta nel suo interesse (solo da lui invocabile), così che il requisito della forma risulta soddisfatto con la messa a sua disposizione del "contratto quadro" e con la firma dello stesso documento da parte sua. Tale orientamento è stato, poi, acquisito anche in tema di contratti bancari, ma restano molti dubbi, a parere di chi scrive, se la forma della determinazione dei tassi in un contratto bancario possa ritenersi di natura "funzionale" anziché, come parrebbe di ragione, "strutturale".

A rendere controversa e, persino, paradossale la sintesi tra forma e sostanza nei contratti bancari è la circostanza che di recente sono proprio gli istituti di credito a reclamare la "forma". È noto che in tema di prescrizione, secondo quanto statuito dalle Sezioni Unite con la notissima sentenza n.24418/2010, il termine decorre dalla chiusura del conto, presumendosi di natura ripristinatoria della disponibilità le rimesse ivi appostate, salvo che si tratti di "rimesse solutorie" (pagamenti veri e propri) per le quali il termine decennale dell'azione di ripetizione dell'indebito decorre dalla loro effettuazione. Le rimesse si dicono "solutorie" quando effettuate su conto non affidato oppure, in caso di affidamento, quando vi sia stato superamento dei limiti del fido e fino al loro ripristino. Orbene, accade che alcuni rapporti di conto corrente siano di fatto "affidati", pur in assenza di un contratto scritto di apertura di credito. Si parla di fido per facta concludentia, allorquando, per esempio: il conto sia durevolmente e non occasionalmente "scoperto", sia autorizzato il pagamento di assegni allo scoperto, siano applicate le commissioni di massimo scoperto (che, per semantica, presuppongono la scopertura, cioè l'affidamento), siano indicati tassi intra ed ultra fido negli estratti conto, sia iscritta l'apertura di credito in Centrale Rischi. In tutti questi casi, secondo gli operatori bancari, il conto corrente andrebbe considerato "non affidato" con la conseguenza che tutte le rimesse effettuate anteriormente al decennio dall'atto interruttivo della prescrizione andrebbero considerate "solutorie" e, quindi, prescritte.

Si tratta, evidentemente, di uno sconcertante paradosso per il quale la forma, posta come strumento di trasparenza e di tutela del soggetto debole, ossia del correntista, finisce per essere un vulnus per la sua posizione sostanziale prima, processuale poi, traducendosi piuttosto in un vantaggio per l'istituto di credito che non abbia curato di approntare, con la controparte, un contratto scritto per un fido concretamente praticato. La giurisprudenza su questo punto sembra orientata a correggere questa incongruità, attingendo al concetto, richiamato dalle Sezioni Unite con la sopra citata sentenza n.898/18, secondo cui in materia finanziaria e, poi, in quella bancaria, le nullità per difetto di forma possono essere eccepite solo dal cliente (v. art.127 T.U.B.). Quindi, ove risulti nei fatti inequivocabilmente un affidamento, esso avrà valore fra le parti, salvo che il vizio di forma sia eccepito dal correntista.

Questo, allo stato dell'arte, è in sintesi il controverso dibattito tra forma e sostanza nei contratti di diritto bancario. Vedremo la successiva evoluzione in una materia che ne abbisogna nel senso della coerenza.

Avv. Giuseppe Piccione del Foro di Taranto


Condividi

Lascia un commento